REALTÀ DIGITALE E CORPO

Quarantine Project


CRATILO

A cura di MIXTA - Secret location - Genova. 2019

"SO: Tu sai che la parola 'Pan' significa 'ogni cosa': e va in giro, ed é sempre in movimento, ed è vera e falsa. E dunque la componente vera di essa, liscia e divina, abita lassù tra gli dei, mentre quella menzognera, aspra e caprina, sta quaggiù tra la moltitudine degli uomini."

Cratilo è un'installazione site-specific modellata per una secret-location nel centro del centro storico di Genova. Si sviluppa in relazione a un'indagine sulla natura performativa della pittura, e parte da una cruciale domanda: può il linguaggio della pittura, in qualche modo, abbandonare il legame con la veicolazione di un qualsiasi significato?

Cratilo è il nome di un dialogo di Platone nel quale Socrate discute sull'origine delle parole e medita quindi sul loro significato: il maestro propone un'alternativa alle opinioni dei due giovani Ermogene e Cratilo, appunto, che sostengono che i nomi abbiano origine necessariamente divina, o che siano unicamente delle costruzioni umane e non abbiano nulla a che vedere con lo spirito. In medio stat virtus, e perciò Socrate non sostiene né la prima né la seconda ipotesi, ma giunge alla conclusione che sì, il linguaggio è perlopiù modellato dall'uso delle culture degli uomini, ma deve pur certo esserci una matrice divina alla sua origine, e pertanto prende in considerazione l'ipotesi più difficile: né una cosa né l'altra, ma quel che sta nel mezzo. Come nel dialogo.

Il dialogo è il modo più efficace di filosofare, secondo Platone, e la ricerca pittorica alla base di questa installazione, analogamente alla ricerca filosofica, concentra la sua azione sul dialogare.

Davanti a una superficie bianca, precisamente limitata, sento il peso e l'imbarazzo di una storia culturale profondamente radicata che sottende, nella pittura, un preciso rapporto soggetto-oggetto: non riesco a vivere con serenità questo rapporto, non mi riconosco come soggetto e non riesco a produrre un oggetto. Sento in verità che l'aspetto che più mi stimola è nel mezzo, nel dialogo, nella relazione tra me e il mondo fenomenico: Quali siano i limiti tra le cose è unicamente sondabile per sottrazione, esplorando la zona grigia che sta nel mezzo, e che altro non è che la relazione, la quale si concretizza attraverso il dialogo.

L'installazione presenta le tracce che ha lasciato l'azione pittorica a conclusione di sei dialoghi che ho instaurato con la superficie in diverse situazioni e in diversi ambienti. 


Instans - don't like edges + ///

Con Franco Ferrari - in WHEN FORMS BECOME ATTITUDE a cura di Mixta - Ex Ospedale Psichiatrico, Quarto dei Mille - Genova. 2019

Instans è un progetto di dialogo tra due sensibilità opposte. È una meditazione sull'immaginario contemporaneo in cui infinite immagini di ogni sorta si sovrappongono intersecandosi e collegandosi negli schermi dei nostri dispositivi elettronici, sempre più presenti e ingerenti nei nostri processi di conoscenza del mondo. Instans si concentra sul peso e la consistenza che hanno le immagini, e facendolo si interroga sui limiti del linguaggio, laddove la materia - sempre presente - si presenta come un ostacolo che rallenta lo scorrere impalpabile delle idee. Con esiti molto differenti, le due sensibilità fanno i conti con la materia nel tentativo (già di per sé problematico) di oggettualizzare le impressioni relative al contemporaneo.

When Forms Become Attitude - un paradigma rovesciato.

Quando le forme diventano atteggiamento. Questa formula descrive il processo dell'operazione artistica, riducendola in due fasi, una conseguente all'altra. La direzione del processo è determinata dalla parola become (diventano) che implica necessariamente un prima e un dopo. Tra le due fasi dell'operazione artistica, quindi, precisamente delimitate dal become, quella che viene prima corrisponde a un'analisi personale di qualcosa di indefinito, e si può concepire come una sorta di elemento anticipatore della comunicazione. Quella che viene dopo, invece, è la realizzazione di tale comunicazione, che si concretizza in un vero e proprio dispositivo, e che rende possibile lo scambio linguistico tra l'artista e il suo interlocutore. In che modo la prima fase corrisponda alla forma e la seconda all'atteggiamento - come suggerito dal titolo della mostra - stiamo per scoprirlo. Veniamo al paradigma rovesciato. Nella primavera del 1969, a Berna, venne inaugurata una delle mostre di arte contemporanea più significative dell'ultimo secolo: Live in your head: when Attitudes Become Form, a cura di Harald Szeemann; questa esposizione è stata un importante catalizzatore delle innovative sensibilità artistiche del tempo, europee e statunitensi, dalla Minimal Art all'Arte Povera, dall'Arte Concettuale alla Body Art. Quando gli atteggiamenti diventano forme, dice, identificando in questo modo le due fasi dialettiche del processo artistico sopra citato: nella prima fase, come indefinito campo di indagine artistica che anticipa la comunicazione, gli atteggiamenti; e poi a costituire la seconda fase, come dispositivo oggettuale della comunicazione artistica, le forme. Ecco, noi diciamo il contrario. Mantenendo la stessa dialettica, rovesciamo il paradigma: prima le forme, e poi gli atteggiamenti. È necessario fare chiarezza sui termini utilizzati, che, sebbene siano gli stessi usati da Szeemann, corrispondono per noi a campi semantici largamente differenti, con differenti implicazioni, relative a un ragionamento che cerca di aprirsi verso un orizzonte più contemporaneo, cioè più adeguato al nostro tempo. Per forme intendiamo innanzitutto le immagini della nostra cultura contemporanea in cui Internet ricopre un ruolo preponderante: forme che si sovrappongono tra loro e si confondono con le informazioni, creando una rete pluridimensionale fatta di continui collegamenti (links) e sovrapposizioni in perpetuo movimento; un ambiente virtuale in cui siamo costantemente immersi, che alimenta il nostro immaginario. Oggi sono queste forme che condizionano e dettano il fare artistico, che lo vogliamo o no. La prima fase, dunque, quella che anticipa la comunicazione artistica, è proprio relativa al confronto con il dato indefinito delle forme in cui viviamo: è questo il nostro universo di partenza. Per concepire cosa intendiamo per atteggiamento, è necessario nuovamente riferirci al contesto contemporaneo, laddove si manifesta la comunicazione artistica. C'è un certo orientamento, nell'arte contemporanea, che prende in prestito le forme dei linguaggi non propri, il che comporta una progressiva perdita della dimensione oggettuale, per un'arte sempre più dispersa nell'aria, come il pensiero, come il linguaggio verbale. Questo punto è di notevole interesse, e lo assumiamo come elemento costitutivo del nostro operato. Anche nel caso della realizzazione di opere evidentemente oggettuali - come quelle esposte qui - quello che conta davvero e che nobilita l'installazione è il richiamo a quel processo specialissimo delle pratiche di ciascun artista, quel processo che è diventato esso stesso il dispositivo di comunicazione artistica, traducendosi in atteggiamento. Pertanto, in conclusione, l'opera si pone come un tentativo tra molti, o più semplicemente come una traccia, a testimonianza dell'artista; il quale atteggiamento si configura come un irrisolto tendere-verso-qualcosa, e parte dal dato incognito delle immagini e informazioni virtuali in cui siamo immersi quotidianamente.


Che non ci prendiate sul serio è del tutto irrilevante

in INTERFERENZE a cura di Accademia Ligustica di Belle Arti - Casa-Museo Asger Jorn, Via Gabriele D'Annunzio, 6 - Albissola Marina. 2019

Penso al problema della mia generazione di eterni bambini, teste fra le nuvole, destinati a prendere le redini del mondo il più tardi possibile: è praticamente impossibile togliersi di dosso il peso di una società che non incoraggia, ma cristallizza e irrigidisce. Per bene che vada, la mia generazione viene presa sul serio se si sforza di utilizzare il linguaggio e i riferimenti che erano adatti a una società e una cultura di almeno quarant'anni fa. L'idea è quella di scoprire alcuni aspetti peculiari del nostro immaginario, che galleggia in uno spazio virtuale fatto di links, trasparenze e movimento: ogni dato è sganciato dal suo contesto, e contribuisce a formare un universo nuovo, leggerissimo. Che non ci prendiate sul serio è del tutto irrilevante: la condizione che rende possibile la leggerezza è la nostra indifferenza nei confronti di una società che cerca di imporre anacronisticamente il suo peso - fatto di contestualizzazioni e riferimenti a una realtà che, in definitiva, non ci appartiene.

L'opera, un'installazione polimaterica realizzata quest'anno ad hoc per casa Jorn in Interferenze #3, ha nella sua applicazione formale un riferimento principale, che sono i Mobiles di Calder: grandi sculture cinetiche di cui ho cercato di assorbire la leggerezza e una certa elegante lentezza. Ho già affrontato il tema generazionale con l'installazione "Ninna Nanna" (Premio G.B. Salvi 2018) seppur con differenti media; "In Equilibrio", invece, è la mia opera che più si avvicina a questa in termini di realizzazione, ma con intenti differenti. Entrambe hanno favorito la genesi di "Che non ci prendiate sul serio è del tutto irrilevante", pensata come opera site-specific; nel tentativo di tenere alta la bandiera dell'arte come espressione libera e anarchica promossa da Jorn.


Somiglianze di Famiglia

a cura di Arianna Maestrale - presso Centro Sottostrada, s.ta della Noce 41r, Ge.  2019

"Per diversi mesi, dopo questa [ultima] installazione, ho prodotto poco. Mi sono perlopiù concentrata sulla teoria: ho letto e studiato i libri che sono presenti nella bibliografia di questo testo; e ho riflettuto sul kung fu, sulla meditazione, sull'arte contemporanea. Nel frattempo ho dedicato molto tempo alla progettazione della mia prima mostra personale - una mostra sui generis, curata e finanziata da me, in uno spazio non adibito all'arte. L'idea di Somiglianze di Famiglia è nata ovviamente per caso, quando mi è stata offerta la possibilità di intervenire nel corridoio del Centro Sottostrada, in zona San Martino a Genova. Ho pensato a lungo all'allestimento, al contesto in cui mi trovavo e a quale fosse la prosecuzione naturale del mio percorso artistico. In un primo momento mi sono soffermata sulla relazione che intercorre tra la pratica e la teoria, perché nel Centro Sottostrada sono organizzate alcune attività come corsi di danza, lezioni di musica e arti marziali: mi interessava particolarmente il corridoio come zona di collegamento e di passaggio, una zona che si attraversa.


In un modo o nell'altro, però, finisco sempre a riflettere su di me e le persone che mi stanno intorno, cioè sulle relazioni che si creano tra me e il mondo. In questo caso, alla fine, ho deciso di realizzare una specie di "ritratto di famiglia", in cui la mia pittura fa emergere tanti diversi aspetti - persone, concetti e discipline - che appaiono interrelati fra loro. Mi sono concentrata più del solito sulla natura del linguaggio: come la comunicazione, il linguaggio è una respirazione; è un processo continuo che collega il dentro con il fuori.

 scelto "Somiglianze di Famiglia" come nome per la mostra, riferendomi alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, proprio perché ho trovato indispensabile riflettere sul linguaggio e la relazione tra il segno e il significato, oltre che quella tra il soggetto e l'oggetto.

Somiglianze di Famiglia è il risultato del mio lavoro di laurea triennale in Pittura.
I miei studi personali sulle discipline orientali - il Kung Fu e la meditazione - convergono con le riflessioni sul linguaggio, in uno spazio dell'arte che si trova a scomporre il processo della pittura in diverse fasi e ricrea una fitta rete di segni e significati interrelati fra loro mediante assonanze, richiami e soprattutto somiglianze.

Secondo Wittgenstein il significato delle parole risiede unicamente nel loro uso nel linguaggio; sulla scia di questa idea, l'appropriazione dei segni diventa per me il principale metodo di comprensione del respiro delle cose del mondo. "Quando è vera l'immagine della pittura varia essenzialmente tra vuoto e pieno così come il mondo varia tra apparizione- scomparsa, emergenza-nascondimento, possibilità di manifestarsi e ritirarsi", Francois Jullien. 

Ho scritto così sul comunicato stampa della mostra. Ma la mostra non è stata solo una mostra: il giorno dell'inaugurazione ho realizzato una performance, Questi siamo noi. Proprio quella performance che avrei voluto fare l'estate passata, ma con qualche accorgimento in più - o meglio, con un elemento nuovo che ha permesso alla mia idea di concretizzarsi in maniera più efficace: uno specchio. 

Per la mostra, invece, ho dipinto quattro grandi teli di nylon trasparente ciascuno di 2 x 4 metri, e li ho installati appendendoli come degli arazzi a circa venti centimetri dalla parete, in modo tale che, illuminandoli con dei faretti, proiettassero su di essa le ombre dei miei segni pittorici. Sulla stessa parete su cui venivano proiettati i segni, ho applicato alcune fotografie in ordine sparso: quelle foto, tratte da momenti significativi o trovate per caso, sono state i riferimenti che ho avuto mentre ho dipinto i teli, e costituiscono in un certo senso "l'oggetto in sé"; il significato che già in partenza è difficilmente afferrabile, e che non si scorge se non attraverso uno schermo di proiezioni della mente, negli spazi di luce tra le ombre dei segni e le ombre di chi passa di lì, anche se per caso."


In Equilibrio

In Opus & Light a cura di Studio A'87 in collaborazione con Palazzo Collicola Arti Visive e Comune di Spoleto. - Chiesetta MADONNA del POZZO, Porta Monterone 5, Spoleto. -"In equilibrio". 2018

Mi sono resa conto che la maniera più produttiva di procedere è cominciare a lavorare senza pensare a nulla, ma semplicemente seguendo l'impulso creativo, assecondando quella spinta che in un modo o nell'altro non sbaglia mai - chissà perché, poi. Solo dopo che il lavoro è nato, quando già si è creata una forma, mi permetto di domandarmi che cosa sta succedendo, ma cerco sempre di non lasciare troppa ingerenza alla mente. In generale, trovo che sia indispensabile e utilissimo alternare fasi di produzione espressiva a fasi di studio degli artisti e di studio del mio lavoro: mi spiego meglio, perché questo fatto è interessante, io non lo capisco mai del tutto quello che faccio. Dal momento che non c'è un vero io che pensa e che crea, ma è tutto un accadere condizionato da innumerevoli circostanze, allo stesso modo il lavoro artistico che è prodotto da me non è affatto qualcosa che sono in grado di comprendere del tutto; pertanto, è necessario tornare indietro sul lavoro fatto - anche a distanza di molto tempo - e approfondirne le spinte, le direzioni, le situazioni. È sempre come respirare: bisogna un po' tirare fuori, e bisogna anche raccogliere inspirando. Solo così le cose circolano nella maniera migliore.

Così, assecondando questa respirazione, ho messo da parte la riflessione sociale e politica per ritornare su di me con una consapevolezza nuova. Ho realizzato In Equilibrio, che è un'installazione con una storia di progettazione un po' travagliata: inizialmente avrei voluto che fosse Questi Siamo Noi in Equilibrio, ma ecco perché non è stato così:

a giugno avevo progettato una nuova, differente, performance al Bar Mazzini; questa volta in solitaria. Il progetto era quello di eliminare il mio interlocutore (Fabio) per rivolgermi direttamente al pubblico: da una parte del vetro io che dipingo, e dall'altra il pubblico che mi guarda (e si guarda dipingere). Avrei voluto chiamare quest'azione Questi siamo Noi, perché quello che conta è l'azione, e in quell'azione siamo presenti tutti noi. Ma il poco tempo a disposizione ha reso la cosa impraticabile perché - soprattutto - sentivo che c'era qualcosa che ancora non quadrava, e mi serviva più tempo per pensarci meglio. Solo dopo qualche mese mi è arrivata l'idea che mancava, che mi ha portato dritta a Somiglianze di Famiglia, ma non è ancora il momento di parlarne. Prima di abbandonare il progetto Questi siamo Noi, però, la mia volontà era di realizzare con questa performance una sorta di autoritratto collettivo e successivamente servirmi del materiale prodotto in quell'occasione per realizzare Questi Siamo Noi In Equilibrio, di cui sopra. Un'installazione che si ispira alle Macchine Inutili di Munari; ma che non è composta da cartoncini e sfere di vetro, bensì, fa galleggiare nell'aria piccoli teli trasparenti dipinti - frammenti di teli che avrei ritagliato dal grande dipinto finale della performance che alla fine non ho realizzato.È andata che - senza il materiale della performance - ho realizzato appositamente per l'installazione cinque teli trasparenti di misure diverse: ciascuno di essi corrisponde ad un aspetto significativo della mia vita, dati da cui sono partita per arrivare a un'astrazione che renda l'immagine condivisibile. A questo punto ho chiamato l'opera In Equilibrio, tagliando la prima parte del titolo che non riguardava più il lavoro. È stata esposta in una chiesetta con affreschi del '500 a Spoleto, e la trasparenza ha permesso alle immagini di comunicare con l'ambiente, favorendo il respiro e la relazione.


Ninna Nanna

in RASSEGNA INTERNAZIONALE D'ARTE PREMIO G.B. SALVI a cura di Riccardo Tonti Bandini - presso Galleria Civica d'Arte Contemporanea Giovan Battista Salvi- MAM'S, Comune di Sassoferrato (AN) - Installazione "Ninna Nanna". 2018

Finiva la primavera e cominciava l'estate: avevo appena approfondito, per diversi esami e per mia curiosità, Gordon Matta Clark, Luigi Ghirri, Jenny Holzer, Wim Wenders e L'Arte Povera; ma anche Gianni Celati, Calvino e Raymond Queneau. Moltissimi concetti sparsi che si collegavano, si avvicinavano e si allontanavano, stimoli profondi. Sentivo per le strade di Genova, più forte del solito, una cifra nascosta che è il dato sconosciuto e misterioso della mia città: tra le altre cose pensavo al G8, che d'estate ritorna nell'aria e non cessa mai di farsi respirare. Diversi stimoli mi hanno portato per la prima volta a riflettere riguardo alla mia generazione, all'eredità che ci siamo trovati, e alle possibilità che il futuro ci riserva. Più volte ho avvertito con fastidio un certo disorientamento dei giovani come me, poco dialogo generazionale e una forte confusione e indecisione relativa alla nostra identità. Tutto ad un tratto questi temi sono diventati importanti nel mio percorso, perché sono un aspetto imprescindibile che condiziona - o meglio, determina - quella relazione tra soggetto e oggetto che era ormai diventata il centro della mia ricerca artistica. Non penso alla mia generazione in termini puramente economici e politici: quello non posso, non ho gli strumenti per poterlo fare; ed è perciò che è un tema importante: perché è piuttosto strano e non del tutto serio che la società in cui vivo non mi fornisca gli strumenti per rendermi conto di come sono posizionata - almeno nei fatti, nella pratica, intendo.

Immersa in queste riflessioni, ho realizzato un lavoro completamente diverso dai precedenti. C'era la possibilità di partecipare ad un bando per una mostra contemporanea relativa alle rivoluzioni del 68, e non mi sono tirata indietro. Per l'occasione ho discusso molto con mio zio Paolo (leva '51), che ha vissuto, da adolescente, le vicende del 68 in maniera abbastanza partecipata da potermene riferire un quadro generale; non ho potuto fare a meno di paragonare quella realtà a quella attuale, cercandone analogie, differenze, cause e conseguenze. Ne è uscito un lavoro denso e una modalità espressiva differente da quelle usate in precedenza: se prima mi sono concentrata unicamente sul linguaggio, in questa occasione mi sono confrontata con una priorità diversa. Cioè, realizzare un'idea.

Qui il titolo e il testo di presentazione del lavoro:

NINNA NANNA

Il 68 ha perso l'anima: è arrivato fin qui alla mia generazione come una memoria, come un vissuto d'altri sì incredibilmente affasciante, ma definitivamente e ormai amaramente fuori dal tempo. Con questa installazione racconto la mia esperienza indiretta dei movimenti sociali, politici e culturali connessi con il 1968 lavorando sulla mediazione dell'evento che è avvenuta e avviene nella nostra società e nel nostro tempo.

Il buio della notte apre uno spazio ampio e profondo di figurazioni, simboli, luci lontane e immaginazioni. In questo vuoto fantastico si agitano i significati e i sensi vaghi: nessuna prospettiva figurativa, ma un ordine incomprensibile e un po' confuso fatto di livelli, sovrapposizioni, flash improvvisi, ma anche (e soprattutto) rallentamenti tranquillizzanti. In questo spazio aperto, nel buio della notte, c'è una Ninna Nanna con cui sono cresciuta io e con cui è cresciuta anche gran parte della mia generazione. È il racconto del 68, che come appare così scompare e si disperde: un carosello affasciante di idoli che si sovrappongono e si deformano, navigando nello spazio apparentemente senza una meta chiara. È appunto il fatto che girino in tondo, questi idoli luminosi, che ci tranquillizza; e il fatto che ad un canto di lotta possa essere accostato a cuor leggero un brano pop ci fa sentire serenamente deresponsabilizzati.

L'entusiasmo, la lotta, l'appartenenza, la rabbia, e anche la violenza perdono la loro chiarezza e rimangono privati della loro anima. Il vago carosello di luci che rimane è quel che non è stato ancora cancellato del tutto dalla nuova società.

Io e la mia generazione abbiamo in mano delle armi giocattolo con le quali immaginiamo di poterci guadagnare quel che ci spetta, o tutt'al più di poterci difendere. Non ne abbiamo consapevolezza, perché ci hanno insegnato così; ma talvolta, nel buio della notte, sentiamo il suono delle cicale: non succede niente di speciale, ma solo per un attimo ci solletica il dubbio che quel carosello non sia solo un gioco di luci, un'illusione, una Ninna Nanna.

L'installazione Ninna Nanna è un carillon luminoso - come quello che illumina i ricordi della mia infanzia più tenera - che, però, non proietta animaletti colorati: proietta idoli («eidolòn»: «immagine, figura», ma anche «fantasma, spettro»). Determinante, ancora, è stato il ruolo della musica: ho creato una colonna sonora - l'effettiva Ninna Nanna - di 29 minuti ad hoc per l'installazione, mixando insieme frammenti di pezzi musicali più o meno direttamente collegabili alle vicende del '68, attingendo dal panorama rock and roll anni '60 e '70, dal pop italiano anni '80, dal rap, dal commerciale contemporaneo e dai canti di lotta dal Sudamerica all'Italia delle sottoculture Antifa. Il criterio di selezione dei brani è stato del tutto soggettivo: ho scelto quei pezzi che mi suggerivano una qualche sensazione relativa a ciò che per me significa il '68. Ho inserito anche un elemento che ritengo decisamente importante: il suono delle cicale, registrato d'estate dalla finestra di camera mia. Le cicale qui hanno un significato simbolico che richiama ad una specie di sveglia. Quando le sento è come se improvvisamente mi accorgessi che c'è qualcosa che non va, che tutto quello che credo che sia chiaro invece è confuso e contraddittorio - cioè, è quando nel profondo del sogno avverto la sveglia lontana. A volte le cicale mi fanno questo effetto, tanto sgradevole quanto prezioso, e per questo ho scelto di adottare il loro suono.


Progetto MARE DENTRO 

all'interno del Festival del Mare ed. 1 a cura di Collettivo Mare Dentro. 2018

#1 - 2018

OBIETTIVI

- Analizzare e approfondire il tema del Mare, a Genova, partendo dall'esperienza personale, vissuta. Concentrarsi su come la presenza del mare influisca sulla città e sui cittadini, di come plasmi la consapevolezza del quotidiano.

- Creare una rete collaborativa che unisca tutti i partecipanti in un unico processo artistico, la cui commistione di linguaggi genera da una parte una forza per il progetto stesso, dall'altra una possibilità di crescita e arricchimento per gli artisti coinvolti. Ciascuno di noi non solo ha mantenuto il proprio linguaggio e il proprio approccio artistico, ma lo ha condiviso e messo a disposizione del progetto, permettendo uno scambio in profondità.

- Promuovere l'espressione artistica contemporanea e favorire nella città una possibilità di dialogo tra pubblico e giovani artisti emergenti, incoraggiando l'interesse per i linguaggi artistici contemporanei.

MARE_DENTRO #1 - "Memöia" "Föa" "Respîo"

L'intento non è quello di realizzare un'esposizione. L'intento è quello di creare (o ri-creare) un processo: non il cosa, ma il come. Il lavoro consiste in un intenso dialogo tra i partecipanti. Impressioni, opinioni, idee svincolate da necessità pratiche caratterizzano la prima fase, determinante, del progetto. Contemporaneamente, il gruppo si prefigge di svolgere degli esercizi pratici specifici: ciascun artista sceglie per sé una spiaggia o una scogliera genovese e raccoglie da essa uno o più oggetti. Si tratta di azioni realizzate e documentate in maniere differenti: la pluralità degli approcci apre molte strade per la ricerca. Memoria, Narrazione e Respirazione sono i tre temi principali che, approfonditi dal gruppo,

diventano i tre contesti dentro i quali vive e si snoda l'esperienza del Mare.

- La ​Memoria in primo luogo è legata alla sabbia come materia più masticata e digerita dal mare: in essa si concentrano infinite storie e vissuti, in essa si mischiano le memorie allo stesso modo di come si mischiano le vite in un porto di mare. È un continuo andare e tornare, arricchito da un mescolamento senza riposo. L'identità di Genova, e la sua memoria, si trovano un po' nella sua sabbia. Non si sa da dove venga e neppure dove se ne andrà, ma sta sempre lì, come gli scogli, a guardare il mare. La performance "Memöia" comincia inevitabilmente a "crearsi" già durante i primi incontri, vive la sua pratica realizzazione per mano degli artisti, lascia esiti nel tempo e nello spazio, ed è qui documentata in ciascuno dei suoi aspetti.

- La ​Narrazione è l'aspetto più divertente e ludico del processo. Gli oggetti reperiti sulle spiagge e scogliere genovesi ci eccitano, e ci troviamo a immaginare e assegnare loro nuove identità. A metà tra demiurgi e bambini archeologi, studiamo questi reperti e ce ne appropriamo, inventando per loro (anche senza volere) nuove vite, e diverse storie, che tradiscono in realtà i nostri desideri e le nostre inclinazioni. L'esposizione degli oggetti "Föa" accentua e approfondisce la pluralità degli approcci e dei linguaggi degli artisti.

- La necessità che vi sia uno spazio in cui mare e montagna sono presenti contemporaneamente, perché il dipinto respiri bene, è sovente ribadita nelle basi della pittura cinese: Genova è un luogo in cui il vento accentua e sottolinea questo respiro. C'è un soffio vitale che è continuamente in movimento, che lega il dentro con il fuori, che lega il nostro mare con i nostri monti. La ​Respirazione è il processo: c'è continuamente qualcosa che entra e qualcosa che esce, che insieme costituiscono un ciclo infinito, ripetitivo e sempre diverso, come il ciclo dell'acqua, e come il processo stesso del progetto Mare_Dentro. L'installazione sonora "Respîo" affronta da un punto di vista opposto la pluralità degli approcci degli artisti, che implica anche portate energetiche differenti. L'installazione sonora assorbe e riassume le diversità, come in una respirazione comune, che si muove ed è continua.

Vivi ringraziamenti ai docenti dell'Accademia Ligustica di Belle Arti, in particolare a Simona Barbera, che con disponibilità ed entusiasmo ha supportato il progetto, e Cesare Viel, che ha suggerito il riferimento che ha costituito il primo grande punto di partenza, cioè "Progetto Oreste" del quale ha riportato testimonianza diretta.   

testo critico a cura di Arianna Maestrale


Trama di Confine Fusione

in TRAME a cura dell'Accademia Ligustica di Belle Arti - presso Accademia Ligustica di Belle Arti. 

«Ognuno di questi dipinti è un esercizio fatto per una performance finale che ho fatto a marzo, chiamata "Confine Fusione". Ho fatto ciascuno di loro dipingendo su un telo sospeso tra me e un ballerino. Ognuno di questi esercizi (compresa la performance finale) è un tentativo, una ricerca: non c'è nessuna volontà di fissare una forma, o di rappresentare il soggetto, né di catturare il movimento, c'è piuttosto il continuo, difficile tentativo di osservare e comunicare. Rimanere qui, all'interno della Fusione, sul Confine, e osservare dove finisco io e dove comincia il mondo. L'azione è stata una meditazione sullo spazio e sul dialogo, che attraversa il segno della pittura e il movimento della danza contemporanea.»

Nella primavera del 2018 ho realizzato un'opera che ha costituito una nuova svolta, inserendo alcuni nuovi spunti nel mio percorso. Si tratta di Trama di Confine Fusione, che ho pensato per la notte bianca dell'Accademia, e che è stato il passo necessario per continuare a far vivere Confine Fusione dopo i due tentativi di riproposizione a Firenze, dimostratisi con evidenza non più magici come la prima volta. Spendo due parole in merito alle riedizioni della performance, esperienza che credo sia stata molto formativa: abbiamo provato, con Fabio, a rifare l'azione con lo stesso spirito della prima volta a distanza di sei mesi. Non sarà facile - ci siamo detti - ma proviamoci: sarà un'azione diversa ma ci guiderà lo stesso spirito. Ci siamo buttati. Ma era ormai cambiato qualcosa in modo irreversibile, perché durante le performances non riuscivamo più a trovare quella sintonia che c'è stata la prima volta. Sentivamo che non ci riusciva più di trovare una direzione in quello che facevamo, e abbiamo entrambi avuto l'impressione che stessimo imitando quello che è stato, e che il tutto, adesso, risultasse vuoto. Pertanto, dopo questa esperienza, un po' confusi, abbiamo deciso di prenderci del tempo per metabolizzare e rielaborare tutta la faccenda. 

È in questa fase che mi sono concentrata sugli esercizi a china e sulla serie di dipinti relativi a Moon Safari. Qualche mese dopo c'è stata Trame, la notte bianca dell'Accademia, in cui ho esposto un'opera che è stata decisiva - come anticipato - per arricchire il discorso. L'opera è un'installazione che vede sospesi, uno davanti all'altro in successione, tutti i teli su cui abbiamo fatto le prove della performance, dal primo all'ultimo tentativo. A pensarci bene, non sono sicura di riuscire a ricostruire come mi sia venuta l'idea. Ricordo che negli stessi giorni stavo facendo un lavoro molto grande con il mio compagno di pittura Roberto, Doppio Autoritratto, o Racconto Postmoderno era un dipinto ma anche un combine e un collage: stavamo cercando di ricostruire i tre mesi precedenti, ciascuno tirando fuori aspetti personali, memorie, oggetti, evocazioni; era qualcosa che aveva a che vedere con la narrazione, ma in maniera veramente per nulla scontata, qualcosa che nasceva da un dialogo fatto di collegamenti, confusione e stratificazione. Penso che sia stata proprio la stratificazione ad essere la chiave per restituire nuovo respiro al mio lavoro: proprio quella stratificazione che è emersa chiaramente in Trama di Confine Fusione; opera in cui si legge una storia, o un processo, una trama, e un allenamento.

Fondamentalmente, la stratificazione congiunta alla narrazione ha costituito un nuovo grande spunto. Come se avessi scoperto che c'è un'altra dimensione, tutta da scoprire e approfondire. Anche il discorso della performance, è apparso sotto nuova luce.



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